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Le Virtù teramane in ogni piatto a Teramo il 1° maggio. In casa o al ristorante l’inimitabile specialità tipica della cucina teramana.

Già una decina di anni fa sulle colonne di Repubblica Carlo Petrini firmò un appassionato e lungo elogio delle Virtù teramane, richiamato in prima pagina dalla civetta. Il famoso gastronomo fondatore di Slow Food scrisse: «Le Virtù ci insegnano che il cibo è prezioso, ha valore e non soltanto prezzo, che possiamo tirare fuori cose geniali da ciò che avanza. Ci riconducono anche al significato sociale del cibo, a una reciprocità che in tempi di crisi tremebonda e spesso drammatica diventa un elemento economico rivoluzionario».

Piatto elaborato e composito (ortaggi, legumi, carne, pasta, uova) ma incredibilmente leggero, da non confondere con un semplice minestrone di verdure, pena una fatwa scagliata da noi teramani, le Virtù, consumate a Teramo e un po’ in tutto l’Abruzzo il 1° maggio, sono il trionfo del recupero. Dunque non potevano non attirare l’attenzione di Petrini, difensore della cucina tradizionale. Di fronte al divismo fastidioso degli chef stellati, a mattità come la cucina molecolare, all’invasione di programmi televisivi, libri, film rivelatori di una crescente ossessione per il cibo, le Virtù rappresentano il manifesto di un’antica cucina forte e gentile, del silenzioso saper fare delle donne di casa, dell’abitudine virtuosa di far da mangiare anche con gli avanzi.

Le Virtù sono il piatto simbolo e identitario della ricca cucina teramana (senza fare torto a mazzarelle, chitarra, scrippelle ‘mbusse, timballo di scrippelle e tante altre impareggiabili e tipiche bontà), da sempre vertice dell’intera gastronomia abruzzese.

Legumi, maiale, ortaggi, verdure, erbe aromatiche, polpettine di manzo, brodo di gallina, pasta di vario tipo: le Virtù teramane sono un concerto, una sinfonia di ingredienti, in cui nessun sapore deve prevalere sugli altri.

Il nome deriva probabilmente dalla sapienza virtuosa delle massaie di una volta, abili nel conservare in dispense e madie i legumi e la pasta, proteggendoli dall’attacco di muffe e tarli così da farli durare per il fabbisogno alimentare della famiglia durante i duri mesi invernali. E quando in primavera venivano ripulite le credenze nessuno si sognava (come si fa oggi) di buttare gli avanzi delle provviste. Ogni rimanenza delle scorte invernali veniva recuperata. I resti del maiale (il “manico” del prosciutto appeso in cucina), i diversi tipi di legumi, i rimasugli spezzettati e scompagnati di pasta secca: tutto finiva in pentola insieme alle primizie primaverili offerte dall’orto. Era il momento per fare di necessità virtù. Ma anche un momento di festa, di distribuzione alimentare, nonché una sorta di rito propiziatorio in vista del nuovo raccolto.

 

Piatto rituale popolare legato al calendario agrario, le Virtù celebrano la fine dell’inverno (il 30 aprile per i contadini) e l’arrivo della bella stagione con i suoi generosi raccolti. Una consuetudine alimentare giunta intatta dall’antica società rurale alla modernità, conservando anche l’interessante connotato antropologico di momento di condivisione alimentare. Ancora oggi chi fa le Virtù in casa ne prepara infatti in abbondanza e le distribuisce alle persone care. Qualcuno coltiva la vecchia buona pratica di dividerle  con i poveri.

Sicché il 1° maggio a Teramo, poiché anche ogni ristorante e trattoria prepara le Virtù pure per l’asporto, si assiste a un andirivieni indaffarato di persone con pentole, callare, pignatte, imbracate dentro canovacci meticolosamente annodati sui coperchi per non far traboccare il prezioso contenuto. Molti, soprattutto i turisti, preferiscono consumare le Virtù nei locali, ma per assicurarsi un tavolo occorre prenotare almeno una settimana prima.

Negli ultimi anni la tradizione delle Virtù è diventata infatti un richiamo turistico e una risorsa economica per Teramo e il territorio provinciale, tanto che i ristoratori replicano la preparazione del piatto nel primo fine settimana successivo al 1° maggio.

 

Attenta, paziente e lunga la preparazione di questo complesso piatto unico, secondo un rigido scadenziario. Tra spesa, ammollo dei legumi secchi e del maiale, preparazione vera e propria, l’impresa richiede quasi tre giorni. Senza contare che gli ortaggi e soprattutto le erbe vanno prenotati per tempo dall’ortolano di fiducia.

Proprio le erbe, oltre che la storia, ribadiscono la teramanità delle Virtù, nonostante i maldestri tentativi di replicarle altrove. Più onesto sarebbe, in quel caso, chiamare il piatto minestrone di primavera, specie se “mostrificato” in una sagra o “contrabbandato” in tv.

Peraltro dal 2011, grazie all’impegno di Art, l’associazione dei ristoratori teramani dentro le mura, le Virtù teramane hanno il loro disciplinare approvato dal ministero delle Politiche agricole, che ha riconosciuto il piatto specialità tipica garantita.

Ancor più degli altri ingredienti le erbe sono infatti il marchio delle Virtù: un’importanza che discende dalla forte tradizione orticola teramana. Ai piedi del centro storico, negli orti di Acquaviva (esistenti già nel Cinquecento) terreni fertili alla confluenza del fiume Tordino e del torrente Vezzola, favoriti da un ideale microclima, danno tenerissime erbe aromatiche che profumano il piatto e lo rendono un unicum. Erbe introvabili altrove, se non negli orti teramani di Cazzitte, Tabbusse, Micucce.

 

Distribuzione alimentare, si diceva. Argutamente scriveva l’antropologo Giuseppe Di Domenicantonio: «Scordarsi di mandare un pentolino di Virtù a chi di dovere è una dimenticanza imperdonabile, uno sgarbo brutale, quasi una dichiarazione di guerra».

 

Anna Fusaro

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