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Jesus Christ Superstar la mia prima pietra miliare

di Nico Alparone 

Il bilancio dell’anno trascorso. Non so esattamente quando iniziai con questa consuetudine, un rito che praticavo tutti i 31 dicembre. Mi ritagliavo un momento del giorno nel quale, in totale solitudine mi fermavo a riflettere su cosa l’anno mi aveva portato, sugli avvenimenti importanti che avevano determinato una trasformazione, una nuova o comunque diversa visione della mia vita. 

Avrò avuto 16 o 17 anni, gli anni dell’adolescenza ed ogni anno era costellato da una tale mole di mutamenti e novità da renderlo assolutamente unico ed irripetibile. 

Non so neanche esattamente quando smisi con questa abitudine, probabilmente quando ogni anno (per quanto segnato da eventi importanti, anche se non sempre piacevoli) iniziava ad essere troppo uguale al precedente. Probabilmente quando, arrivati al 31 dicembre, si inizia a pensare “per fortuna quest’anno di merda è finito”, assegnando così a quello che verrà chissà quali possibilità di riscatto, quale taumaturgica capacità di sanare i guasti subiti durante quello appena trascorso.

Tutt’ora, anche se ho rinunciato al rito del bilancio di San Silvestro, a ciascun anno riesco ad assegnare dei punti di riferimento, un viaggio, un incontro importante, una perdita. Ma, a differenza degli anni in cui ogni 31 dicembre dedicavo un’ora o più alla meditativa riflessione, il ricordo dell’anno risulta più approssimativo e tende a confondersi con quello degli anni che lo hanno preceduto. In quegli anni di bilanci finali, invece, se non proprio ogni giorno, per lo meno ogni mese aveva un peso specifico autonomo ed assoluto, aveva portato un cambiamento, una novità, una crescita, una evoluzione nella coscienza e della conoscenza. Come chiunque pensavo che sarebbe stato così per sempre. Ma poi “si cresce”.

Faccio un passo indietro e vado alla preistoria di tutto ciò. Era il 1970, l’anno in cui compivo 13 anni ed ancora non avevo iniziato il mio rito annuale. I miei ricordi più vividi iniziano infatti da metà anno circa, uscivo dal bozzolo bambino e stavo entrando nell’adolescenza. In una siciliana mattina di maggio a pieno sole, trovai per la prima volta il coraggio di affrontare una ragazzina dai luminosissimi occhi verdi per offrirle il mio amore. Mi rispose che era troppo impegnata a preparare gli esami di terza media (che toccavano anche a me, non distogliendomi però dai tormenti amorosi) e se ne sarebbe riparlato dopo gli esami. Tornai a casa confuso, in uno stato di trance che mi era sconosciuto fino a quel momento, presi la mia chitarra che già strimpellavo da un paio d’anni e composi all’impronta una “canzone”, be’, diciamo una nenia, il cui unico testo era la ripetizione ossessiva del nome della bella eletta.

Arrivarono gli esami, la ragazzina dagli occhi verdi in realtà mi si avvicinò con aria sicuramente più conciliante, ma nel frattempo io ero stato colpito da nuova irresistibile ed assoluta attrazione amorosa per un’altra ragazzina, o sarà meglio dire ragazza a tutti gli effetti, visto che l’oggetto della mia nuova travolgente passione aveva ben 15 anni, ovvero parecchie marce in più rispetto a qualsiasi altra da me conosciuta fino ad allora. Fu un amore totale. Tornai a casa in uno stato confusionale ben più avanzato della volta precedente, tanto che, intuii da certi sorrisi, se ne resero conto anche i miei genitori. Per prima cosa riadattai la mia canzone, cambiandone il testo, ovvero sostituendo il nome della non più amata con quello della mia nuova passione. Dovetti risolvere un problema sillabico, visto che la nuova aveva un doppio nome, più lungo e con più sillabe del precedente, ma in qualche modo, sincopando un poco, ne uscii vincente. Quando in settembre scoprii che il mio nuovo amore, al quale non mi ero ancora minimamente dichiarato, si era iscritta al liceo scientifico, (io ero stato invece destinato al classico), piantai un casino in casa. Pretesi di cambiare l’iscrizione all’ultimo momento, e non fu semplice, senza poter spiegare agli allibiti genitori la vera ragione dei miei mutati interessi. Stavo riscrivendo così in maniera radicale il mio futuro. Non tanto per l’orientamento delle materie che avrei studiato, quanto perché il mio mondo relazionale ed esperienziale sarebbe stato differente, determinando in modo diverso la mia adolescenza.

Il bello è che anche un mio cugino, coetaneo ed amico da sempre, appresa la fatale notizia, pretese di cambiare anche lui l’iscrizione. Fu così che quella ragazza deliberò, (senza peraltro averne coscienza) il futuro di due persone. Provai poi a “fidanzarmi” con il nuovo soggetto della mia canzone  e per un paio di mesi ci riuscii pure, ma quella differenza di età si rivelò letale. La ragazza infatti, anche per radicali differenze di vita vissuta, aveva avuto il suo “sviluppo”. In me trovò un bambino o poco più e mi mollò per lidi più concreti. Continuammo a frequentare la stessa classe per cinque anni e durante gli esami di maturità regolammo ciò che tra di noi era rimasto in qualche modo in sospeso. Non ci rivedemmo mai più.

Questo è quel che mi succedeva tra maggio e dicembre del 1970.

Il 2 dicembre del 1968 c’era stato l’eccidio dei contadini di Avola, a soli 5 chilometri da casa mia. Ne mantengo un ricordo vivido, nonostante la mia giovanissima età. Ricordo anche una conversazione tra i miei genitori ed i miei zii che vivevano a Siracusa, circa i guai che avrebbe dovuto affrontare il responsabile, capitano o non so cosa dei carabinieri, anch’egli di Siracusa e che evidentemente i miei zii conoscevano. Espressero il loro rammarico per l’amico, ma c’era qualcosa che non mi tornava, anche se ancora non capivo bene cosa. 

Eravamo alla fine degli anni 60, il fascismo sconfitto dalla storia non si era mai ritirato dal campo di battaglia, gli aguzzini di un tempo non erano mai stati giudicati dai tribunali ed adesso ritrovavano il modo di riprendersi la scena alla loro maniera. Sarebbe arrivata Piazza Fontana e tutto il resto del terrore che ben conosciamo. Fu in quel clima che una mattina del 1970, quando ancora frequentavamo la terza media, io ed il mio amico Lorenzo ci ritrovammo a gironzolare per il paese in una insolita mattina. Era un normale giorno di settimana, ma trovammo la scuola chiusa a causa di uno sciopero generale che aveva paralizzato ogni attività. Lo ricordo come un giorno felice, diverso e di stupore. Durante una passeggiata ai giardini pubblici vedemmo passare alcuni ragazzi in corteo. Corteo è una parola grossa. Erano quattro gatti al seguito di un barbuto con un (rarissimo per l’epoca) giubbotto di renna, che sventolava con una mano una bandiera rossa e con l’altra una fidanzata, altrettanto rossa. Seguivano una dozzina di giovani dalla faccia seria, un po’ truce e compunta.

Forte fu su di me l’impressione e l’attrazione.

In ottobre, ormai titolare di pantalone lungo, iscrizione al liceo e fresco di fidanzamento, mi presentai, insieme al mio amico, alla sede del PCI. Volevamo iscriverci. Insomma, almeno alla FGCI, ma volevamo alcuni chiarimenti, specialmente in merito alla posizione che avremmo dovuto assumere rispetto alla religione. Io, per lo meno, ero preoccupato dall’ateismo che sapevo essere elemento costituente per un vero comunista. Frequentavo sporadicamente la parrocchia, andavo svogliatamente a messa e mi costringevo al rito della confessione che ogni volta diventava sempre più imbarazzante e dalla quale non ricevevo mai risposte o soluzioni. Alla fine presi la tessera e rinunciai, da allora e per sempre, a credenze più trascendenti.

Era l’ottobre del 1970. In dicembre ero ormai un comunista fatto e svezzato.

Era sempre ottobre quando, durante uno dei primi pomeriggi di studio da liceale, decisi di accendere una grossa radio a transistor che girava per casa. Le chiedevo compagnia e consolazione, una disinteressata complicità che mi aiutasse ad affrontare le assurde regole della matematica o della geometria, che ai miei occhi erano la conseguenza diretta e tangibile, il pegno da pagare per le mie scelte d’amore.

Accedo all’etere con un clic e attraverso le onde elettromagnetiche in modulazione di frequenza un proiettile di grosso calibro viene sparato diretto dentro il mio cervello. Era la sigla di “Per Voi Giovani”, era “Moby Dick”, erano i Led Zeppelin. Paolo Giaccio e Mario Luzzatto Fegiz da allora mi tennero compagnia ogni pomeriggio, della matematica capivo e imparavo poco, della musica pop memorizzavo praticamente tutto. Iniziai pure a comprare “Ciao 2001”. Nella copertina del primo numero che comprai, il 42 dell’ottobre 1970, ricordo un Jimi Hendrix con una splendida e da me invidiatissima, giacca a fiori. Lui era già morto, io stavo nascendo allora.

Durante quei mesi Giaccio e Fegiz presentarono “Jesus Christ Superstar”, la cui incisione aveva appena visto la luce. La mia totale dissociazione dalla religione ufficiale era durata poco. Il Gesù appena uscito dalla porta, stava cercando di rientrare, camuffato con nome inglese, dalla finestra. In qualche modo ero costretto a riaccettare ‘sto Jesus, seppur solo musicalmente parlando e, per carità, mi sforzavo di sottolineare con chiunque, come figura storica e non come simbolo religioso.

Mi innamorai perdutamente di quelle note, di quei pochi scampoli di disco trasmessi quasi tutti i pomeriggi dalla radio. Me ne innamorai più che della stessa donna ragazzina che aveva turbato la mia sfiorente infanzia. Per la prima volta in vita mia desideravo ardentemente possedere un disco.

L’operazione mi riuscì in dicembre. Mia sorella era appena approdata all’università a Catania e da lì mi riportò, prima del santo natale, il JCS, prima edizione italiana assoluta, quella della MCA, edita in Italia con la stessa identica veste della prima assoluta inglese del 16 ottobre 1970. Assolutamente niente a che vedere, (per arrangiamenti e potenza delle interpretazioni) con quella che poi sarebbe stata la versione cinematografica del  1973, meritoria, ma musicalmente molto più fiacca.

Erano trascorsi pochi mesi dagli esami di terza media a quel 31 dicembre 1970, solo tre dalla fine di una estate di cui ricordo molto poco. Pochi giorni dopo avrei compiuto 14 anni. Per quanto mi riguardava il mondo non era più quello di prima, io non ero più quello di prima. Era iniziata la mia adolescenza.

JESUS CHRIST SUPERSTAR

Non esiste nota di JCS che io non conosca. Se uno spiritello malefico provasse un giorno a sostituirne solo una, me ne accorgerei subito. Conservo ancora la mia prima copia ma ormai è inascoltabile, c’ho fatto i buchi. Nel tempo ne ho poi ricomprate altre, con vesti e supporti diversi, ma sempre e soltanto incisioni della versione originale.

Continuo a considerare quel disco come uno dei più belli da me mai ascoltati. Suggerisco,  a chi per qualsiasi ragione se lo è perso durante questi 50 anni, di ascoltarlo o a chi lo ha fatto distrattamente, di riascoltarlo con la dovuta “religiosa” attenzione.

Inevitabilmente (e strameritatamente) spicca su tutti la figura di Jan Gillan, ma non si possono certo considerare comprimari gli altri interpreti. Giuda Murray Head e Maria Maddalena Yvonne Elliman sono strepitosi. E mi fermo qui. Ma quello che tutt’oggi mi chiedo, ciò che ancora mi stupisce è: come diavolo (ops!) è possibile che un simile gioiello musicale, complesso e articolato, sia stato creato da un ragazzo poco più che ventenne? Forse è una domanda stupida, quasi sempre le cose migliori i geni della musica (e non solo) le hanno prodotte da giovanissimi, quando più che l’esperienza, contano la creatività e la sfrontatezza, le passioni senza compromessi.

Andrew Lloyd Webber, autore della musica, è del 1948. E’ chiaramente un genio e un enfant prodige, scriveva musica già all’età di nove anni. Non ha mai smesso, rimanendo quasi sempre, per passione e formazione, nell’ambito del teatro musicale. Sue sono, tra le altre opere, “Evita” (1976), “Cats” (1981), “Il Fantasma dell’Opera” (1986), “Sunset Boulevard” (1993). Porta a teatro anche “Il Mago di Oz” (2011) e “School of Rock” (2015). Insignito col rango di “Cavaliere” dal 1992 e successivamente di “Barone” nel 1997.

A distanza di molti anni da quel 1970, pietra angolare della mia esistenza, stilai, in forma di racconto, una classifica dei miei dischi del cuore. Quella lista l’ho smontata e ricomposta tante volte negli anni, ma JCS, seppur non sempre presente al primissimo posto, non è mai uscito dalla mia personale Top Ten. Ripropongo adesso quel racconto, il mio approccio laico a Jesus che, uomo o divino che sia, non ha mai smesso di essere Superstar.

MILIARE

Odio la nebbia. Da siciliano levantino l’ho sempre considerata elemento estraneo e ostile all’uomo e al convivere civile. Opinione personale, senza dubbio, criticabile e criticata da alcuni bipedi padani che di quella sostanza impalpabile si nutrono.

Entrare nella nebbia e’ come entrare in un sarcofago; il contatto con la realtà circostante diventa definitivamente impossibile. Alla nebbia preferisco il Nebbiolo.

Quest’ultimo però mal si concilia con la nebbia, nonostante essa ne costituisca la sua radice semantica e la sua essenza originaria.

Comunque, dicevo, sono due generi che poco si sopportano e mal volentieri si combinano.

Trovarsi stretti nella morsa contemporanea dei due elementi può costituire un pericolo considerevole, specie se ci si trova a viaggiare in macchina. Pressione doppia e contraria. Nebbiolo che spinge forte da dentro verso l’esterno, nebbia, intangibile, inafferrabile, che spinge a sua volta da fuori in dentro, penetrando ogni minima fenditura, occupando, inesorabile e senza attendere permessi, ogni anfratto, impadronendosi di qualsiasi spazio che non sia già occupato dalla materia.

Spero non debba succedervi mai, come e’ successo a me, di trovarvi in una simile condizione. Solo e perduto in un quartiere di periferia di Bologna dal nome già di per se inquietante: “Fossolo 2“. C’è da pensare che accanto esista un “Fossolo 1” e forse un “Fossolo 3“. Chissà poi se quella perversa numerazione non continui in positivo e in negativo e ci si possa ritrovare magari a vagare, come in un racconto di fantascienza, intrappolati per sempre in un “Fossolo 7“. A me bastò il “2”. La doppia e contrapposta pressione di cui parlavo prima non mi aiutò certo a trovare una soluzione.

Vagavo, oppresso, da una strada all’altra, cercando un indizio che mi aiutasse a risolvere la scomoda circostanza nella quale, per distrazione o disavventura, mi ritrovavo.

Ma quale indizio potevo mai trovare in strade che, anche con la luce del sole, appaiono tutte uguali? E che ora mi si presentavano ancor più appiattite e rese uniformi dalla nebbia infida e ingannatrice e dalle burle del faceto Nebbiolo? E’ forse un cassonetto del “rusco” (sul quale andai a sbattere ammaccando una portiera) diverso da un altro (col quale mi scontrai subito dopo)? Posseggono per caso i semafori una intima e complessa attività speculativa che li personalizzi, li diversifichi e li renda dunque identificabili?

– To’, ma questo e’ il semaforo Gianni; be’, allora mi trovo su Via Tale. Infatti, ecco, girando qui a destra dovrei incontrarmi con… proprio lui, eccolo lì, come sempre al suo posto, Alfredo, il semaforo sguercio di Via Col Vento.

E no! Purtroppo non è così che vanno le cose: un semaforo vale l’altro, e in questo quartiere anche una strada vale l’altra.

Quella notte tutto aumentava.

Nebbia sempre più fitta. Effetto Nebbiolo in continua ascesa, montando al ritmo dei rabbocchi costanti a cui mi costringevano il gelo, la paranoia e la vana ricerca di chiarirmi le idee. Aumentava pure la possibilità che rimanessi a piedi da un momento all’altro, considerato che, quella notte, la benzina era l’unica materia in continua diminuzione.

Quando attaccai la seconda bottiglia di Nebbiolo, nello sconsiderato tentativo di contrastare l’antagonista nebbia (allora io non avevo ancora intuito l’effetto micidiale risultante dalla coalizione dei due elementi, accomunati da quella insidiosa matrice linguistica), anche l’auto iniziò ad emettere sussulti minacciosi, sgradevoli, lugubre annuncio della ormai prossima fine del carburante e della imminente imbarazzante situazione nella quale mi sarei ritrovato di lì a poco.

La realtà si presentò silenziosa.

Capivo ora quanto amico mi fosse stato fino a quel momento il regolare ritmo dei pistoni, quanto rassicurante il rumore delle gomme, fruscio morbido sull’impeccabile manto stradale di quel quartiere numerico che stava inghiottendo un pezzo della mia vita in una notte di inverno, di nebbia e di Nebbiolo.

Il silenzio era assoluto, senza grilli o scrosci di onde, tombale.

Un plaid sintetico, omaggio dell’ACI di qualche anno prima, fu l’unica cosa che trovai per coprirmi. L’effetto Nebbiolo mi rendeva fiducioso; sarebbe stato simpatico passare la notte lì, pensai e con un brivido carico di complessi sentimenti mi rigirai su un fianco…

Lungo la sconnessa e tortuosa strada che porta da Villa Vela a Testa dell’Acqua, tra le colline che videro fiorire e perire l’antica Noto,  mi era capitato spesso di incrociarmi con le vacche o per lo meno di spiaccicarne con i pneumatici le immancabili tracce.

L’avevo appena imboccata sterzando dolcemente al bivio e, aspettando da un momento all’altro quell’incontro consueto, che ogni volta mi regalava un momento di infinita serenità, non mi stavo certo preoccupando di contare quanti chilometri mancassero all’arrivo.

Sono quindici o venti minuti di macchina, questo è tutto.

Mi stupii dunque, quando, uscendo lentamente dalla prima curva, vidi alla mia destra, ben piantata sul ciglio della strada, un’indicazione chilometrica; ma più che stupirmi trasalii, abbagliato dai raggi decisi del già caldo sole di aprile che quella pietra sembrava riflettere nitidamente.

Superato il primo momento di smarrimento, rallentai la marcia fermando quasi l’auto e con curiosità guardai l’insolita pietra miliare. Il chilometro dodici era annunciato in bella evidenza su qualcosa che non sembrava affatto la consueta pietra bianca fregiata coi numeri romani, ma su qualcos’altro che, pur di identica forma, mi appariva molto diversa, familiare senza dubbio, ma singolare certamente in quel luogo, in quell’angolo di mondo: vinile, un grosso blocco di vinile, luccicante, con tanto di etichetta al centro. A quel punto arrestai l’auto e scesi.

Già il disegno dell’etichetta mi aveva suggerito la risposta che ora avevo davanti agli occhi. Ummagumma dei Pink Floyd, una pietra miliare. Che strana cosa; forse, pensai, si trattava del tributo di un fanatico dei Pink Floyd che viveva in una delle fattorie della zona, allevando la vacca di “Athom Heart Mother“. Chissà! Era proprio un fatto curioso.

Risalii pensieroso in macchina e lentamente mi riavviai, guidando tra le curve dolci di una strada per me tanto conosciuta ma che adesso aveva acquisito un elemento estraneo più a se stessa che a me.

A passo d’uomo, veniva in direzione opposta alla mia, una vecchia cinquecento, porte a vento, per intenderci. Dopo averla incrociata rallentai del tutto la marcia e mi girai indietro cercando di percepire la reazione del contadino alla guida dell’auto, alla vista di quella singolare pietra miliare; ma, del tutto indifferente, questi continuò il suo cammino senza manifestare alcun segno di emozione.

Proseguii, deciso adesso ad arrivare a Testa dell’Acqua quanto prima, per chiedere, una volta lì, spiegazioni sulla strana pietra ad un conoscente o a chiunque potesse soddisfare la mia curiosità. Un paio di curve, la familiare vecchia masseria alla mia destra e dopo ancora una leggera curva, prima di un breve rettilineo.

In fondo a questo, una macchia scura sulla destra. – Non e’ possibile! Ci risiamo? -; accelerai per coprire in fretta quei trecento metri. Pietra miliare. In vinile. Km 11. Deep Purple: “Made in Japan”. Scesi ancora dall’auto. La toccai. Si, era proprio vinile. Un grosso blocco piantato lì e, all’apparenza, non da poco. Eppure io questa strada la faccio almeno una volta al mese. Che stranezza.

Curiosità e panico mi assalirono allo stesso tempo.

A velocità già più sostenuta cominciai a percorrere la strada che una volta aveva rappresentato per me l’essenza della pace, il simbolo della tranquillità, la personificazione della serenità.

Eccolo lì il chilometro 10. Per un istante vidi la solita familiare pietra bianca; fu un attimo di conforto che mitigava la stravagante esperienza appena vissuta.

Un attimo però. Subito dopo, il beffardo riflesso del sole sul compatto macigno di vinile non mi lasciò alcun dubbio. Altra pietra miliare: “Led Zeppelin II”.

Ormai rassegnato, andai avanti, sperando in cuor mio che, una volta giunto a Testa dell’Acqua, qualcuno, un contadino, il parroco, il barista, fosse stato in grado di darmi una spiegazione logica di tanta stranezza.

Guidavo senza quasi più sorprendermi, rassegnato ad incontrare sul mio cammino quegli assurdi indicatori di chilometraggio in vinile. Evitando ormai di interrogarmi su un mistero per il quale non avevo risposte plausibili. Incrociai, fingendo superiore indifferenza, altre grandi pietre miliari del rock. Nell’ordine: The DoorsAbsolutely Live“, “Nursery Crime” dei Genesis, “Jazz Blues Fusion” di John Mayal, HendrixElectric Ladyland“, un “Elvis Presley in person at the International Hotel, Las Vegas, Nevada“, “Pearl” di Janis Joplin, “Tommy” degli Who, “Santana Abraxas“.

Ormai correvo spedito verso la meta, ero troppo curioso di capire cosa c’era dietro a questa strana storia. Ancora poche centinaia di metri prima del borgo. Non mi aspettavo di incontrare ormai alcuna indicazione chilometrica. La distanza era stata compiuta.

Mi sorpresi, pertanto, quando intravidi la ormai abituale sagoma nera (ma questa, notai, ben più grande delle altre) in fondo all’ultimo rettilineo. Sorpresa che si fece meraviglia quando iniziai a sentire quella musica dolcissima e familiare; “Superstar” il tema principale di “Jesus Christ Superstar” di Andrew Lloyd Webber.

La pietra miliare era proprio più grande delle altre: enorme. Non più sul ciglio, ma solennemente piantata al centro della via. Diceva Km 0.

L’etichetta con il logo della MCA si aprì per dare il passo ad un anziano, maestoso e con la barba bianca. Attorno a lui tutto era bianco e splendente adesso.

21 – Superstar

The Trinidad Singers –  Horace James

https://www.youtube.com/watch?v=kuN4Qd_dRj0

 

Quando aprii gli occhi, anche attorno a me era tutto bianco. Il lenzuolo, quel grande automezzo, la strada, il camice di qualcuno che mi parlava. Solo una luce azzurra fendeva a intermittenza quel biancore.

Con uno sforzo fissai lo sguardo sul volto di colui che mi rivolgeva la parola: – no, non sono Jesus Christ, ma ci mancava poco che lo vedevi davvero quel signore lì.

Rivolto poi a qualcun’altro: – Il ragazzo si e’ ripreso, per fortuna il farmaco ha fatto effetto. Comunque portatelo dritto in rianimazione.

Il giorno dopo, sul mezzogiorno, passò a visitarmi.

– Allora, Jesus Christ? Riesci a muovere le dita adesso?

– Si, si, credo di esserci tutto – gli risposi con un filo di voce.

– Certo che la tua storia ha dell’incredibile, ragazzo. Sai perché ti sei salvato? Perché la tua macchina, coperta di neve in quel modo, ha creato una sorta di effetto iglù. Erano decenni che non veniva giù tanta neve in una notte sola! Cazzo, certo che a stare tre giorni sotto ‘sta neve c’e’ davvero da andare al creatore.

Mi aveva già salutato, quando tornò indietro. Con quel sorriso rassicurante, che sembrava non abbandonarlo mai, guardandomi profondamente negli occhi mi disse: – e sai qual è la cosa più buffa di tutta questa vicenda? che la tua auto, con tutta quella neve sopra, ormai sporca e annerita, sembrava una grande, scura pietra miliare. Eh, eh! ti giuro, davvero strano, sembrava proprio una grande e scura pietra miliare.

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4 Commenti

James 19 Maggio 2019 at 19:17

… credo che, se quando leggi (sistema arcaico di comunicazione), senti salire l’emozione che ti fa stringere la gola allora la lettura è maestra di nuove storie, che allargano le tue conoscenze e, ancora, ti fanno crescere. Mi avevi parlato, tempo fa, della versione di JCS del 1970, che non avevo mai ascoltato….. Per me, che “conoscevo ogni nota” della versione del 1973 è stato difficile riaccordarmi sulla prima ma, concordo con te sulla POTENZA di quella del’70. Erano melodie potentissime su di un ragazzino del ’56 e lo sono ancora oggi a 50 anni di distanza ! Attendo la tua prossima.

Ropi 18 Maggio 2019 at 16:35

Sempre un piacere leggere Nico. Il ritmo del ricordo, come un fiume che, scorrendo lentamente, ogni tanto ti risucchia in un vortice per poi risputarti poco più a valle, in una mutata realtà. Alla prossima!

Bad 14 Maggio 2019 at 22:33

Nike, riesci sempre a commuovere. Grazie

Francesco 14 Maggio 2019 at 11:41

Un’affollato mondo di ricordi, purtroppo senza la tua musica e la sua conoscenza, ma ugualmente belli e vivi: Grazie per il “bel salto nella giovinezza”.
Al prossimo, anzi alla prossima, musica, ascoltando ora Everything’s Alright – Jesus Christ Superstar (1970 Version).

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