America Latina: approccio n.3

di Nico Alparone
-Fidel
-Dimmi Ernesto
-Dormi?
-Mai
-Vabbe’ … hai sentito che quella è partita, se n’è andata davvero?
-Di chi parli?
-Quella Celia Cruz che ti stava tanto sull’anima
-Si, comunque non se n’è andata lei, siamo noi che li abbiamo buttati fuori, lei e quelli come lei: I “Gusanos”.
-Si dice che te l’abbia promessa …
-Sto tremando … ma non preoccuparti, li terremo d’occhio. Si stanno concentrando soprattutto a Miami, sarà semplice.
-E insomma “acqua i ravanzi e vientu i rarrieri”
-Ma che dici? Come parli?
-Siciliano … i siciliani lo dicono quando riescono a liberarsi di qualcuno diventato insopportabile. E’ l’esortazione ad un viaggio che allontani il più in fretta possibile chi non si vuole più tra le scatole. Vuol dire “acqua (mare) davanti e vento da dietro, vento in poppa”.
-Scusa Ernesto, ma tu che ne sai dei siciliani, del loro dialetto e dei loro motti?
– Io niente. Ma perché, Fidel, noi abbiamo forse mai parlato, nel cuore della notte, nella stessa stanza e forse nello stesso letto, di musica, di Celia Cruz e altri personaggi del genere?
-Mmmm …
-La colpa è di quel deficiente di siciliano che scrive di noi senza averci chiesto nessuna autorizzazione. Speriamo che gli passi, preferirei di gran lunga dormire.

Espulsi, esiliati, fuggiti più o meno volontariamente, di fatto dal 1959 sono in molti ad andarsene, soprattutto quelli che con la dittatura di Fulgencio Batista e con gli americani avevano intrattenuto un rapporto privilegiato e lucroso. Tutto ciò fu favorito (anche legalmente con norme ad hoc) dall’interesse americano ad utilizzare una comunità fortemente anticastrista, per le proprie strategie di contrasto.
Così avvenne anche per molti musicisti, per convenienza o per esigenza di libertà artistica. Le mete privilegiate furono La Florida, Miami in testa, la latina Puerto Rico (americana a convenienza) e la stessa New York.
Negli anni 50 i ritmi latini negli Usa, e in misura minore ma significativa anche in Europa, avevano assunto un peso importante e commercialmente significativo. Erano divertenti, freschi e rappresentavano una bella novità nei paesi che andavano affrancandosi dalle miserie umane ed economiche degli anni di guerra. Gli artisti cubani, che all’epoca si muovevano continuamente tra la “Isla Grande” e gli States, con puntate anche verso il vecchio continente, ne erano stati portatori sani, insieme ad artisti di altri paesi caraibici, Puerto Rico in testa.
Una divertente canzone di Celia Cruz racconta: “Il Mambo ha fatto furore a New York, ma poi il Cha Cha Cha lo ha superato, adesso è apparso un nuovo ritmo ed è l’inquietante Rock & Roll.” E via così mescolando nella canzone un ritmo tipicamente latino con le cadenze del R&R. Quando i fuoriusciti post 1959 arrivarono negli Usa, trovarono dunque terreno fertile, ma la parabola discendente della musica latina prodotta fino ad allora era di fatto già iniziata.
Con il favore degli americani, che iniziano a sentirsi minacciati dall’imprevisto clamore e dalla fortuna della rivoluzione castrista, i cubani della diaspora continuano quindi a lavorare, artisticamente e politicamente, trasformando un sentire ideologico e di convergenti interessi economici in una potente lobby anticastrista. Storicamente rimarranno frustrati e perdenti. Dalla loro la numerosissima comunità latina. Oltre ad essere fortemente anticastrista, a sposare con entusiasmo lo stile di vita americano, ad elettrizzarsi per il rock&roll come chiunque, rimane però legata ai propri ritmi di origine, magari non proprio a quelli più tradizionali, ma un buon Cha Cha Cha non mancherà mai di frapporsi al “inquietante R&R”.
Una piccola chicca. Bert Berns, fu un geniale produttore e compositore, un bianco dall’anima coloured che intuì prima di tanti altri e diede linfa a tanto Rithm&Blues durante i ’60 negli States. All’inizio della sua breve carriera (morirà giovanissimo) realizzò le sue prime fortune proprio nella Cuba pre castrista, dalla quale importò emozioni e suoni. Nel ‘60 abbozza la composizione di “Twist and Shout”. Una prima incisione del ‘61, affidata ai “The Top Notes”, non ha subito fortuna, solo l’anno successivo Berns ne cura personalmente una, più vicina alla sua personale suggestione iniziale, con il gruppo “The Isley Brothers”. Ancora un anno e il brano è incluso nel primo storico LP dei Beatles “Please Please Me” e da li in poi la magia di “Twist and Shout” diventerà universale. Bene, adesso pensate un attimo all’attacco di questa canzone, al suo riff di chitarra e confrontatelo con “Guantanamera” e forse meglio ancora con “La Bamba”. E’ identico, è quello, potreste cantarci sopra le tre canzoni, ma “Twist and Shout” diventerà uno dei più travolgenti R&R della storia, grazie ai Beatles, ma anche grazie alla inesauribile e vitale commistione tra i generi. Commistione che vale anche per le fortune e la felicità delle persone, quando sono libere di circolare liberamente in lungo ed in largo per l’unica casa che veramente posseggono, questa maledetta, benedetta terra.

Gli anni ’60 sono anni di rivoluzione e non solo dalle parti di Cuba. Alla metà del decennio c’è musica che sembra provenire da un’altra galassia. Solo a pensare che già nel 1965 si erano formati i Jefferson Airplane, gruppo di punta del così denominato movimento psichedelico di San Francisco, tutto il resto ci appare antico, se non vecchio e decrepito. Ma, per fortuna aggiungerei, non tutto il nuovo, per quanto benvenuto, scalza il vecchio e, specialmente parlando di musica, non tutte le rivoluzioni riguardano allo stesso modo ogni genere. Certo però che dalla metà degli anni ’60 il vento di rinnovamento soffia forte sul pentagramma di tutti i generi pop, siano essi latini, afro americani o con altre radici.
Lasciando alla accademia cubana il culto, la cura e la conservazione del genere tradizionale, la musica cubana e latina più in generale ha rivolto a quel punto lo sguardo verso il cuore pulsante dell’America stessa, New York. Importante è il movimento jazzistico latino o Latin Jazz. Sarà una bella fucina di artisti importanti. Dall’argentino Gato Barbieri ai cubani Michel Camilo, Chucho Valdes, Cachao, Paquito D’Rivera. A quel movimento è dedicato un importante documentario realizzato nel 2000 dallo spagnolo Fernando Trueba, che vi invito a guardare. Titolo “Calle 54”.
“Calle 54 non ha il potenziale emotivo della visita a Cuba di Wim Wenders ma Fernando Trueba sa impaginare il tutto con massima eleganza e finezza filologica, e alcuni momenti senza bisogno di parole comunicano tuttavia una profonda emozione“. (Irene Bignardi)
E’ così che durante gli anni ’60 la musica latina, che tanto successo aveva avuto nel decennio precedente, mostra ormai la corda. Inevitabilmente i generi musicali sottoposti a un simile logoramento o soccombono, diventando storia, buona per le nostalgie e per le teche TV, o si evolvono. Che l’evoluzione poi risulti benefica o cattiva imitazione e plagio delle fortune di altri generi, lo si capirà col tempo. Il tempo ci ha detto che agli inizi degli anni ’70 l’evoluzione della latina porterà, forse inattesa, linfa e suggestioni talmente nuove da poter dire che non si tratta di evoluzione ma di vera rivoluzione.
Già nel 1963 il dominicano Johnny Pacheco fonda la Fania Records, nella quale confluiscono molti dei più importanti artisti cubani, portoricani e latini in generale. Pacheco è un genio. Partendo da quella che rimarrà la radice originaria di tutta la musica latina, il Son Montuno cubano (che già contiene in se le influenze europee e africane importate dagli spagnoli), nella musica di Pacheco si ritrovano il calypso, il merengue, la cumbia e l’americanissimo rock. Africa, Spagna, soprattutto Andalusia, la Cuba più indigena e la patria di elezione, gli States, tutto ciò confluirà all’inizio degli anni ‘70 nella nascita della musica che per 30 anni (e in qualche modo tutt’ora) costituirà il timbro unico della musica latina in tutte le sue sfumature: la Salsa.
Alle nostre latitudini arriva poco di quel gran movimento, appena le briciole, a parte una pagnotta ben condita, quella confezionata da Carlos Santana, che ne rappresenta la versione più rockettara.

Fare qui l’elenco degli artisti che hanno contribuito a questa rivoluzione sarebbe impossibile ma soprattutto inutile. Chi ama il genere li conosce già, chi approccia, avrà modo di ricercare e soddisfare tutte le proprie curiosità.
Ho scelto solo due dischi tra migliaia, con l’unico criterio possibile. Due dischi dei quali sono innamorato. Che comunque rappresentano due momenti diversi e importanti nella storia di questo genere.
Rubén Blades, panamense figlio d’arte, colombiano il padre, cubana la madre, è una figura centrale nella musica latina dagli anni ‘70 in poi. Le sue armonie, da noi in Europa, si ascolteranno poco. La Salsa che in America avrà un impatto musicale e di costume enorme negli anni ‘70, in Europa resterà un fenomeno di nicchia, per lo meno fino a metà degli anni ‘80, fino all’esaurimento pressoché totale della propulsione dei movimenti rock e punk. Inizierà poi a farsi spazio tra gli anfratti dei successi della musica etnica, della World e forse ancor più trainata dal grande momento della Afro degli anni ‘80.
Rubén Blades, pur a pieno merito iscritto nella “Hall of Fame” della Salsa degli anni ‘70 e ‘80, manterrà sempre una sua indipendenza e originalità artistica che ne fa un unicum all’interno di un genere che soffrirà fin dall’inizio di un suo peccato originale, il ripetersi sempre un po’ simile a se stesso, per la sua semplicità strutturale che, come per il blues, lo rende accessibile anche agli artisti meno dotati. Quattro accordi in croce li sanno combinare tutti, la genialità è costituita dal saperli mettere insieme con sapienza creativa.
Sono due le peculiarità di Rubén. L’armonia accattivante, l’originalità delle sue canzoni, che ci appaiono immediatamente diverse da tutto il resto della Salsa in voga in quegli anni. E la ostinata necessità di raccontare attraverso le sue canzoni le storture della società che lo circonda. Cosa normalissima, scontata, per noi abituati alla canzone d’autore, ma lontanissima dalla cultura”salsera”.
Nel 1978 incide, in collaborazione con Willie Colon, “Siembra”, per la Fania Records con cui collabora già da tempo. L’arte creativa è tutta di Blades, ma la collaborazione di Colon per gli arrangiamenti e la produzione sarà fondamentale. E’ un disco importante, bellissimo armonicamente, indimenticabile per le sue canzoni praticamente tutte azzeccate. Con tre milioni di copie forse il disco più venduto nella storia della Salsa.
Certo, ci parlerà anche d’amore, della ricerca della sua donna ideale, la stupenda “Buscando Guayaba”, pura musica Salsa ma allo stesso tempo così diversa da qualsiasi altra cosa ascoltata nei dieci anni precedenti.
Apre l‘album con “Plastico”, innesto Rock su base Salsa irresistibile. Si racconta della scialba vita di una coppia di giovani di plastica, che portano avanti un’esistenza di plastica in una città di plastica. Messaggio bolivariano di unità con esortazione a studiare e lavorare per salvarsi, ad essere gente fatta di carne ed ossa e non di plastica, orgogliosa della propria eredità latina.
“Siembra” (“Semina”) è la canzone che chiude l’album e ci consegna il messaggio che Rubén vuole trasmettere. “Usa la coscienza latino, non lasciarla addormentare, non lasciarla morire. Semina, se vuoi raccogliere, semina, se vuoi progredire. Ma non scordare che dipenderà dal seme che pianti il frutto che raccoglierai”. E’ un messaggio semplice, ma immediato e potente.
La chicca assoluta rimane però “Pedro Navaja”. Forse tratta da una canzone di Kurt Weill scritta per “L’opera da tre soldi”, o semplicemente da un trafiletto di cronaca di un qualsiasi quotidiano newyorchese, ci racconta in sette minuti vita e morte di un deliquentello in un quartiere latino della grande mela. La canzone è semplicemente perfetta, stilisticamente e nello svolgersi del racconto, non solo la ascolti, ma la vedi, un piccolo film con la sua narrazione e il finale con tanto di morale che verrà narrato dal coro. “Il coro che vi ho portato vi darà il messaggio della mia canzone: la vita ti riserva sorprese”, è quanto va dicendo un po’ barcollante l’ubriaco che inciamperà nei corpi di Pedro Navaja e della prostituta sua vittima, dopo essersi appropriato dell’inaspettato regalo di dos pesos, del coltello di Pedro e del revolver della prostituta. Questa canzone diventerà così centrale nella storia della Salsa degli anni ‘70 e ‘80 che ne sono stati tratti lavori teatrali, film (compreso un “Il Figlio di Pedro Navaja”), tutta roba senza rilevante importanza artistica. Anche in una canzone di Hector Lavoe, altro maestro della Salsa di quegli anni, si cita “Pedrito Navaja” quando il protagonista della storia di Lavoe, ancora un deliquentello latino, sta ritornando dal funerale di Pedro. Ma una cosa è certa e la racconta sempre Rubén durante i suoi concerti. La gente continua a chiedergli di Pedro Navaja, come se fosse davvero esistito, come fosse stato una sua conoscenza personale.
Ho iniziato a scrivere queste quattro righe con l’idea di parlare della Salsa degli anni ‘70 e soprattutto della Fania. Non tanto della Fania Records, già creata da Pacheco e dall’italoamericano Jerry Masucci, nel ’64, quanto del supergruppo, la “Fania All Stars” che, sempre su idea del dominicano Johnny Pacheco, nacque nel 1968. In realtà, per quanto si parli del più importante gruppo latino di Salsa di tutti i tempi, si è trattato di una formazione liquida alla quale hanno partecipato e contribuito tutti, ma proprio tutti i più importanti artisti di Salsa degli anni ‘70 e ‘80 e che, un po’ acciaccata, vive e vegeta tutt’ora. Cito per quel che vale solo alcuni nomi, riferendomi agli anni d’oro, dall’inossidabile Celia Cruz (sempre lei, la odiata) a Tito Puente, da Ray Barretto e Cheo Feliciano a Willie Colón e Ruben Blades a Mongo Santamaria, un caleidoscopio di suoni, personalità e caratteri musicali unico e irripetibile. La Fania è sempre dato il meglio di sé nelle esibizioni dal vivo, nei grandi concerti, alcuni diventati storici, registrati e divenuti dischi di enorme successo e film per gli archivi musicali.
Nel 1974, sono allo stadio Statu Hai di Kinshasa, in Zaire, in occasione dello storico “The Rumble in the Jungle”, il mitico match Cassius Clay – Foreman, concerto che diventerà poi il film “Fania All Stars Live in Africa“. Nel 1973 e 1975 si esibiscono allo Yankee Stadium. Nel corso degli anni i concerti saranno numerosissimi e sempre di successo, compreso un “Live in Japan” del 1976. Nel ventennale del supergruppo e trentesimo dell’etichetta furono ripubblicati i due concerti “Live in Africa” e “Live in Japan“, ed organizzato un tour nei cinque continenti. Con la Fania, specialmente in occasione dei grandi concerti hanno collaborato e suonato musicisti come James Brown, Steve Winwood, Stephen Stills, Weather Report, Jan Hammer, Billy Cobham, Manu Dibango.
Va da se che il meglio della produzione discografica della Fania è quella live.
Io scelgo il disco tratto in parte dalla prima esibizione allo Yankee Stadium del 1973. “Latin – Soul – Rock” e nel titolo c’è già tutta la narrazione di quel concerto e del disco. Indimenticabile il duello alle congas tra Mongo Santamaria e Ray Barretto in “Congo Bongo”. L’irresistibile carica di “Mama Guela”. L’Africa che entra a pieno titolo con “Soul Makossa” di Manu Dibango.
Anche stavolta abbiamo però il brano icona dell’album: “El Raton” (Il Topo) già un classico di Cheo Feliciano.
Vale il discorso dei quattro accordi, sempre quelli. Inizia il brano e sopra puoi cantarci tranquillamente il “Chan Chan” di Compay Segundo. Invece inizia la narrazione di Cheo Feliciano. I quarantamila presenti allo Yankee Stadium di New York rumoreggiano dimostrando il loro entusiasmo, conoscono bene la canzone che è del 1964, ma ancora non sanno che li attenderà la più bella e travolgente versione che di quel brano verrà mai realizzata. Il brano è lento, di derivazione Son, si insinua sensuale e invita ad un ballo nel quale il contatto sarà solo quello dello sguardo, il resto del corpo a mimare passione, desiderio, seduzione, sensi all’erta. Le movenze sensuali sono proprie del felino. E’ di questo che ci racconta Feliciano. Del suo gatto “silvestre felino”, che vorrebbe tanto andarsene in giro in una invitante notte di languidi calori micieschi. Ma il suo tentativo di fuga fuori dalle mura domestiche viene frustrato sul nascere dalla sua legittima consorte gatta che non si beve la scusa della caccia notturna al “Raton”. Arriva il momento di svolta del pezzo. Feliciano annuncia: “Così ve la ho raccontata io questa storia, ma adesso ve la racconterà Jorge Santana”. Jorge Malo Santana, messicano, chitarrista, fratello del ben più conosciuto Carlos, non avrà mai la levatura artistica del fratello, ma la mano di famiglia è riconoscibilissima. I due minuti di assolo con la sua Stratocaster diventeranno storia, come del resto lo sarà questa indimenticabile versione del Raton. Personale raccomandazione. Su You Tube esistono varie versioni dal vivo del pezzo, anche con Jorge Santana. Non tenetene conto, sono solo la pallida copia, sbiadita versione della registrazione qui riferita, purtroppo non supportata da video. Ascoltatela a occhi chiusi, va bene lo stesso (o quasi).

-Ernesto, adesso possiamo finalmente dormire in santa pace?
-Sembra di si Fidel, il siciliano deficiente dice che ha concluso la sua “trilogia latino americana”. E’ scemo!
-E poi sono morti tutti o quasi, no?
-Macché, mi dispiace avvisarti Fidel, che Celia è più viva che mai, chi ha venduto milioni di dischi non muore mai. Per quanto ci riguarda poi … sai benissimo che siamo immortali.
-Ovvio
-L’unico qui che prima o poi si toglierà di mezzo come tutti è il siciliano, che non ha mai scritto una canzone, né fatto la rivoluzione.
-Allora buonanotte Ernesto
-Buonanotte Fidel
-Hasta siempre comandante. (clic!).
Pedro Navaja
https://www.youtube.com/watch?v=bGizZTJs0Uo
El Raton